Ecco il primo racconto inviatoci per la nuova rubrica LETTORI E SCRITTORI: PANTELLERIA COME MUSA. Si tratta di UNA NONNA PARTICOLARE di Rosa D’Aietti.
Vi invitiamo a leggere, dopo il racconto, il modo in cui Rosa parla di Pantelleria e come l’isola sia palesemente legata alla sua narrazione e alla sua persona
Una nonna particolare
Tutti si ricordano della propria nonna come di una vecchietta con gli occhiali sul naso sulla sedia a dondolo o a letto come quella di Cappuccetto Rosso con tanto di cuffietta, ma io, alla mia, di focacce non ne ho mai portate.
Era lei che ci portava, non biscotti o dolciumi vari, ma i furdiculi dei molluschi dalle varie sfumature verdi con tanti tentacoli simili agli spaghetti quando veniva da Kafefi in paese per sbrigare le sue faccende.
Li pescava in mare senza farsi il bagno con le sue mani, in un posto dove la nostra mamma e le suore della colonia ci portavano nel tardo pomeriggio a fare il bagno.
Lì vicino c’era il nostro asilo e una grande casa con tante stanze: era dei Pazzarelli, così erano soprannominati, neanche loro erano sfuggiti alla moda pantesca di affibbiare soprannomi a tutti.
Quella era la nostra “spiaggia” fatta di scogli neri e pizzuti, ma noi andavamo a fare il bagno non certo per fare castelli di sabbia, ci divertivamo dentro una camera d’aria presa dal camion di mio padre.
Ma tornando alla nonna, i suoi furdiculi infarinati e fritti venivano consumati caldi, un piatto che i nostri chef possono solo sognare.
Le visite della nonna erano molto rapide: in soccorso di mia madre che aveva sfornato tre figlie in fila venivano le zie ancora zitelle, Franca e Rosa. Zitelle solo per poco, perché Rosa di lì a poco fujò, abitudine molto diffusa allora nell’isola.
Anche mia madre era fujuta, lo si faceva probabilmente per non pesare sui bilanci familiari mai troppo in attivo, a volte semplicemente perché i genitori non davano il loro consenso. Non so quale fu il motivo per entrambe, ma mia madre non era fiera di questa sua avventura, ma si è riconsolata con noi, cucendo con le sue mani i nostri candidi vestiti per salire dignitosamente sull’altare a pronunciare il fatidico Sì.
Ricordo come fosse ora quando andai a Kafefi a cercare la zia, ma nessuno mi rispondeva. Poi qualcuno mi disse che era fujuta. Non capivo bene cosa potesse significare, ma mia nonna era molto triste.
La tristezza comunque durò poco. Il matrimonio sistemò la magagna e poi la nascita del nostro cuginetto portò tanta allegria in quella casa che di lì a poco però visse una tragedia, ma questa è un altra storia…
Ora è di quella nonna pescatrice “vestita” che voglio parlare.
Lei, che nelle nostre estati a Kafefi ci faceva trovare al mattino al nostro risveglio un piatto pieno di bastarduni, ovvero fichi d’india dalle mille sfumature e di una bontà pressoché indescrivibile.
Lei che impastava il pane per tutta la settimana e ci faceva il nostro panetto piccolo piccolo.
Come dimenticare quegli odori e quel sapore quel pane giallo pieno di giuggiulena.
Io non ho un ricordo di lei come di una donna dedita alla casa. A quello ci pensavano le zie. Lei era sempre fuori a cogghiri, sciappiri e a stendere racina nel passiaturi per fare i passuli.
Come dimenticare le sue bambole di pezza fatte con i ritagli di stoffa!
E la sua attrezzatura da calzolaio!
Insomma, bisognerebbe scrivere una canzone come quella che dice “mamma tutto è”, beh, nonna tutto era!
Mai dimenticherò quelle estati trascorse in quel paradiso, in quei dammusi dai quali si vedeva la notte lampeggiare il faro di Capo Bon.
Ricordi indelebili quelli di mia nonna e del mio paradiso perduto.
Rosa D’Aietti e la sua Pantelleria
Ho iniziato a scrivere a circa 30 anni, quando aspettavo mia figlia. I racconti sono solo i ricordi della mia infanzia che porto con me da quel posto meraviglioso che è Pantelleria, allora pressoché sconosciuto.
Abbiamo lasciato Pantelleria negli anni ’60. Aspettavo speranzosa questo fatidico viaggio a Roma, che non fu quella del Colosseo, bensì la campagna Pontina.
Lì si erano insediati i panteschi venuti qui a far fortuna. I marocchini li chiamavano disprezzandoli, perché poveri, gli stessi abitanti della zona provenienti anch’essi da altri lidi.
Ma noi venivano da quell’invisibile puntino sulla carta geografica a due passi dal Continente Nero, pertanto per loro non eravamo da considerare italiani. E che rabbia quando qualcuno se lo dimentica quel puntino, ignaro di quanta storia e quanta cultura esso racchiuda.
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