Lunga intervista a Valerio Adorni: un viaggio nell’amore per la Natura e la Sostenibilità, dalla passione di un padre all’eredità di un figlio
di Giusy Andaloro
Tra i personaggi che ormai caratterizzano l’Isola di Pantelleria ce n’è uno che approda soprattutto d’estate sui neri lidi e che, come il resto della sua famiglia che è sull’isola ormai da più di 50 anni, è rimasto folgorato da questo scoglio, ma soprattutto dal suo mare.
Suo padre ha acquistato una casa a Pantelleria negli anni Settanta, un periodo in cui l’isola stessa era probabilmente molto diversa da come la vediamo oggi. Cosa significava per lui, grande amante del mare e apneista, vivere in questo luogo?
Sarò sempre grato a mio padre, Silvio Adorni, per le scelte di vita che intraprese e che condizionarono profondamente la mia infanzia, la mia crescita e la mia passione per il mare, dove Pantelleria ha giocato un ruolo fondamentale. Mio padre fu un pioniere dell’apnea e della pesca subacquea in un’epoca in cui la scienza stava iniziando a esplorare gli effetti della pressione idrostatica sull’uomo in immersione, con i primi tentativi di spingersi sempre più in profondità. Erano i tempi di Maiorca e di Majol.
Sin da giovanissimo era affascinato dal mare, fin dai giorni lontani della battaglia di El Alamein, in Africa settentrionale, dove, poco più che ragazzo, condivise le trincee con il suo compagno e amico Rutilio Sermonti. Cercando di alleviare la tragicità di una guerra assurda, tra le sabbie del deserto, parlavano di mare, di programmi di immersioni subacquee nel misterioso mondo sommerso. Fortunatamente, quell’antica amicizia sopravvisse al conflitto mondiale, e i loro sogni e progetti presero forma.
Mio padre e il suo fidato amico di trincea condivisero le prime esperienze subacquee: immersioni in apnea e pesca subacquea con attrezzature rudimentali. Proprio come in battaglia, anche nelle loro avventure sommerse si fidavano ciecamente l’uno dell’altro, consapevoli di mettere la propria vita nelle mani del compagno, con una fiducia totale che garantiva sicurezza nel profondo blu.
Mio padre fu segnato dalla guerra, della quale ha sempre evitato di parlarci, preferendo il silenzio per ritrovare la sua pace interiore. Venne ferito in battaglia da una scheggia di granata, grande come metà pollice, che portò nel polmone destro per tutta la vita. Nonostante ciò, possedeva doti apneistiche fuori dal comune, tanto da essere pubblicato nei primissimi numeri della rivista periodica Mondo Sommerso, molti decenni fa. Era e rimane il mio idolo, e mai potrei eguagliare le sue capacità subacquee.
Nella vita mio padre era un professore e attendeva le ferie per godersi il mare con una roulotte e un gommone, navigando lungo tutte le coste d’Italia, ma nel lontano 1964 sbarcò per la prima volta a Pantelleria, isola allora veramente selvaggia. Il viaggio per raggiungerla era un’avventura: nove ore su piccoli navigli contro onde impetuose, e quando sbarcavi, baciavi la terra!
Il turismo era quasi inesistente, in un’isola meravigliosa, tutta da scoprire sopra e sotto il livello del mare. Una terra di frontiera, lontana, dove le comodità scarseggiavano e ci si doveva adattare a una Natura difficile, che decideva per chi la abitava e per i visitatori, come mio padre.
A Pantelleria, mio padre decise di interrompere il suo vagabondare per il mare: l’isola gli rubò il cuore e volle mettervi radici. Nel ’68 acquistò casa direttamente dal costruttore, l’ingegnere Bofondi, ancora ricordato sull’isola, in uno dei primi complessi residenziali turistici edificati a Punta Fram, sulla costa occidentale di Pantelleria, la parte più vicina alla Tunisia. Pantelleria e il mare definirono la vita di mio padre, che si fece conoscere e amare dagli abitanti, i panteschi, gente verace, genuina e ospitale.
Ancora oggi, a 25 anni dalla sua morte, mi capita di incontrare panteschi, e purtroppo non sempre riesco a ricordarli tutti, ma loro, con un sorriso, mi raccontano di mio padre: “Il professor Adorni, il subacqueo apneista che, nei primi anni ’70, faceva pesca subacquea con Pino Mannone, pantesco, detto Sansone!”.
Era l’epoca migliore, in un mare affascinante e misterioso, e quei due uomini giganti, alti 1,90 m, esperti di mare, uno pantesco e uno milanese, condividevano emozioni, avventure, suggestioni infinite e prede sui fondali profondi dell’isola.
Per mio padre, Pantelleria rappresentava il suo benessere, il suo vivere migliore. Qui trascorse anche alcuni inverni, durante i quali scoprì la vera essenza dell’isola e l’autenticità della generosa amicizia dei panteschi. Grandi persone, i cui figli sono oggi miei cari amici.
E cosa significa per lei, oggi, mantenere viva questa eredità e ritornare qui ogni anno?
In questo contesto meraviglioso, nel 1973 venimmo al mondo io e mio fratello Alessandro, concepiti proprio a Pantelleria durante il viaggio di nozze e nati a Roma. Già all’età di due mesi sbarcammo per la prima volta sull’isola, nonostante il parere contrario del pediatra “capitolino” dell’epoca, che diede del matto a mio padre, ma invano.
Sono cresciuto con Pantelleria nel sangue, da sempre. E con un padre che stimo più di chiunque altro, del quale sono fiero e orgoglioso. Ci insegnò a nuotare prima ancora di camminare, mi insegnò l’immersione in apnea prima ancora delle tabelline. Ma, soprattutto, ci insegnò che non c’è amore più grande di un padre che condivide con i propri figli le gioie dello sport, della vita all’aria aperta, della passione per il mare, e di una vita sana, anche e soprattutto a Pantelleria.
Mi piace proseguire il percorso di mio padre qui sull’isola, dove ogni anno ho le lacrime agli occhi il primo giorno al mio arrivo e l’ultimo alla partenza, quando chiudo casa e saluto l’isola dalla poppa della nave. Adoro rivivere Pantelleria attraverso gli occhi di mio padre, provare le stesse sensazioni che condivisi con lui da ragazzo e da giovane uomo. Anche oggi, a 51 anni, sento di essere a Pantelleria più vicino a lui, che ringrazierò sempre per la passione per il mare che ha generosamente tramandato e per le sue gesta, rese abili da una sapienza antica.
Ho desiderato trovare un gommone come quello che usava lui, dello stesso colore, della stessa lunghezza. Oggi è considerato un battello vintage, ma per me è perfetto, ideale per le mie esigenze. Con esso, da solo o con la mia compagna, viviamo l’isola con emozioni forti, proprio grazie a mio padre, Silvio Adorni.
Crescendo in un ambiente così unico, come ha influenzato il suo rapporto con la natura e con il mare? Come si è trasformata nel corso degli anni la sua connessione personale con l’isola?
Non ho mai avvertito il bisogno di adattarmi alla difficile natura di Pantelleria: per me era la normalità, era l’isola. Non avevo termini di paragone. Fin dalla prima estate della mia vita, siamo stati una “famiglia isolana”, io, mio padre e noi figli, “i gemellini del Professor Adorni di Punta Fram”.
Per me Pantelleria è sempre stata il canone del vero mare, con la sua costa rocciosa, scoscesa, a tratti impervia. Un mare che spesso devi guadagnarti, sudando su ripidi sentieri, e le sbucciature alle ginocchia da bambino erano una costante. Può sembrare incredibile, ma ero talmente plasmato dalla natura di Pantelleria che, ancora oggi, non riesco ad apprezzare fino in fondo una costa sabbiosa. Le spiagge e i lidi sabbiosi possono piacermi, certo, ma ai miei occhi non rappresenteranno mai il vero mare. Pantelleria ha forgiato in me il suo carattere, dolcemente e col tempo.
Durante la mia crescita ho sempre seguito i passi di mio padre. I suoi insegnamenti, di vita e di mare, sono stati per me il miglior vantaggio nella scoperta di Pantelleria. Avevo un ottimo maestro, e innamorarmi dell’isola è stato facile e naturale. Pantelleria ci ha accolti, e noi, riconoscenti e rispettosi, l’abbiamo amata come figli suoi.
Intorno ai trent’anni ho sentito il desiderio di esplorare altri mari, altri luoghi, un’esigenza normalissima per chiunque. Per nove anni ho navigato verso le isole Pontine, non lontane dalla costa laziale, e ho visitato altre isole: quelle campane, come Ischia, Capri, Procida, la Costiera Amalfitana fino a Palinuro, e verso nord l’arcipelago toscano. Piccoli gioielli del nostro bel Mediterraneo. Ero più giovane e avevo fame di conoscenza, ma sapevo che Pantelleria era là, molto più a sud, ad aspettarmi. E non l’avrei mai tradita, perché ai miei occhi restava la migliore, era “la mia Mamma”.
Nel corso degli anni fino ad oggi, non rilevo in me particolari trasformazioni nel mio approccio con l’isola e il suo mare. Certo, la maggiore consapevolezza e maturità influiscono sulle mie scelte, sia sopra che sotto il livello del mare, ma con l’avanzare dell’età cresce in me un sentimento sempre più forte per Pantelleria. L’isola è stata testimone della mia crescita, e anch’io ho visto in lei, nel tempo, cambiamenti. Alcuni, purtroppo, poco piacevoli. Ma è il destino inesorabile di ogni località turistica, da nord a sud, mare o montagna: l’eccessivo sfruttamento per fini commerciali, spesso a scapito della natura.
Ha dei ricordi particolarmente vivi o emozionanti legati a suo padre e alle immersioni che facevate insieme? Quali insegnamenti o momenti di condivisione in mare l’hanno segnata di più?
Sono molteplici e vivissimi i ricordi di mio padre legati a Pantelleria, ricordi che proteggo e custodisco gelosamente. I suoi racconti di mare, le avventure e le disavventure vissute nel mare pantesco, sempre imprevedibile e che non ammette troppa confidenza. Un mare, quello al centro del Mediterraneo, impetuoso e sottomesso ai forti venti del Canale di Sicilia, con tempeste improvvise che, da secoli, sono protagoniste di innumerevoli disavventure di naviganti.
Tra i suoi racconti, voglio menzionare un episodio accaduto anni prima della mia nascita e di quella di mio fratello, di cui conservo vecchie fotografie. Mio padre si trovava sul lato opposto dell’isola con il suo gommone, ancorato sottocosta, e si immerse per pescare allo Scoglio del Formaggio, uno dei migliori spot dell’isola, con fondali profondi e straordinari. Quel giorno, però, interruppe la sua pesca quando avvistò una tartaruga marina, una caretta caretta, incastrata in una rete sommersa, ancora in vita. Le tartarughe marine sono abili apneiste, ma, come noi, respirano in superficie. Mio padre non esitò a liberarla, compiendo numerose immersioni in apnea fino a circa 15 metri di profondità, dove l’animale lottava per sopravvivere. Grazie al suo coltello subacqueo e alla sua impresa, riuscì a salvare la tartaruga, che, appena libera, nuotò velocemente verso la superficie per respirare, seguita da mio padre. Anche questo fa parte delle gesta di un pescatore subacqueo coscienzioso.
Un altro episodio, che ho vissuto personalmente con lui e che non potrò mai dimenticare, accadde proprio nel mare davanti a casa, a Punta Fram, quando avvistammo per la prima volta uno squalo mentre eravamo in acqua. Avevo forse 14 anni, o poco meno, e stavo accompagnando mio padre a pesca. Eravamo esattamente a Cala dell’Alca, un tratto di costa impervio, con alte pareti rocciose a strapiombo sul mare, inaccessibili e decisamente inquietanti. Un tratto di mare spesso caratterizzato da forti correnti, dato che Punta Fram è molto esposta. Il mare era calmo, la giornata luminosa, tutto sembrava tranquillo, quando vedemmo una verdesca di almeno un metro e mezzo “pascolare” non lontano da noi, su un fondale di 20 metri.
Io fui terrorizzato e stringevo forte la mano di mio padre. Fortunatamente, non avevamo prede legate alla cintura, ma non potrò mai dimenticare la sua voce ferma, rassicurante, ma imperativa: “Valerio, non è interessato a noi. Stai tranquillo, ma oggi niente pesca. Torniamo in caletta!”. Sono passati oltre 35 anni, ma tutt’ora, quando pesco e costeggio Fram, e Cala dell’Alca si apre davanti a me, un brivido di suggestione mi attraversa, e non mi abbandona più.
Ogni insegnamento di mio padre era prezioso, anche solo osservarlo nelle sue immersioni nel blu. La sua concentrazione e la solidità mentale in ogni discesa subacquea erano per me il miglior studio possibile. Ho 51 anni, e mio padre mi manca ancora come se fossi un bambino.
La pesca in apnea non è solo uno sport, ma una vera e propria disciplina che richiede concentrazione, resistenza e rispetto per il mare. Quali sono i principi fondamentali che ha appreso da suo padre riguardo questa pratica, e come cerca di applicarli oggi?
Ho ormai almeno 43 anni di apnea alle spalle, di cui gli ultimi 36 dedicati alla pesca subacquea. Posso affermare con certezza che non si termina mai di imparare dal mare. Non può esistere un termine di insegnamento che si possa ricevere da ogni esperienza in mare, sia nell’apnea che nella pesca subacquea.
A 20 o 30 anni si può essere fisicamente performanti e atletici, ma anche imprudenti; solo un buon insegnamento, l’esperienza in mare e la testa sulle spalle possono fare la differenza per riportare sempre a casa la pelle. Soltanto ieri, lunedì, e domenica, a distanza di sole 24 ore, sono deceduti nel mare della Sardegna due pescatori subacquei, uno dei quali aveva solo 27 anni.
Grazie ai social, a Internet e ai miei video pubblicati su YouTube, ho avuto la possibilità di conoscere una vastissima platea di appassionati di pesca subacquea, molti dei quali ho poi incontrato personalmente, dando vita a sane amicizie nel tempo. Tuttavia, sono molteplici i profili Facebook di miei contatti purtroppo deceduti in mare.
L’insegnamento ricevuto da mio padre e la pratica svolta con lui sono state fondamentali, perché ho imparato prima di tutto una regola che ritengo essenziale: siamo uomini, siamo terricoli, e dobbiamo sempre approcciarci al mare e al mondo sommerso con timoroso rispetto!
Quello che ho appreso da mio padre, che ha praticato la pesca subacquea per tutta la vita, anche oltre i 65 anni, era basilare, imperativo ed essenziale. La tecnica di respirazione, il rilassamento e mai l’iperventilazione, che ai suoi tempi era molto utilizzata, rappresentano un gravissimo rischio e causa di sincope. Da lui ho imparato ad assecondare me stesso in mare, non basandomi su limiti erroneamente considerati. Troppo spesso ci si confronta con il mare con eccessiva sicurezza, certi di conoscere i propri limiti e arrivando a sfiorarli, tirando le apnee. E per cosa? Per un pesce! Non esiste cattura che possa valere la nostra vita.
Noi siamo organismi, non motori meccanici i cui limiti sono scritti su manuali. I nostri limiti sono labili, differenti da un giorno all’altro in mare, in base a innumerevoli fattori, ambientali e personali. Il nostro stato di salute, poche ore di sonno la notte precedente l’immersione, un raffreddore o semplicemente il freddo che percepiamo in mare, così come la corrente forte o il moto ondoso, che può anche indurci alla nausea, sono tutti fattori che influenzano quelli che consideriamo i nostri limiti. Non mi stancherò mai di insistere sul fatto che un apneista non deve mai fare affidamento sui propri limiti; è sbagliato! Tirare l’apnea, rischiando il blackout e la sincope, è fatale in mare, specialmente se si è soli in immersione.
Il mare concede ben poco una seconda possibilità e non ci è amico: non ha un’anima. Ed è per questo che continuerò ad approcciarmi ad esso con timoroso rispetto. Sia chiaro, non intendo elevarmi in cattedra. Anch’io ho commesso errori di incoscienza sott’acqua, dai quali ho sicuramente imparato. La pesca subacquea comporta un fattore di rischio, è indiscutibile, e spetta al pescatore coscienzioso in apnea ridurre al minimo la percentuale di tale rischio, mettendo in conto anche la fatalità dell’imprevisto. Mi immergo in apnea tutto l’anno, in estate negli alti fondali di Pantelleria e nei mesi freddi al Circeo, sulla costa laziale. Non esisterà mai un’immersione uguale a un’altra. Il nostro compito è mantenersi lontani da ogni rischio, diminuendo di conseguenza anche gli imprevisti.
Oggi si parla molto di pesca sostenibile e di protezione degli ecosistemi marini. Negli anni, come ha adattato il suo approccio alla pesca in apnea per garantire che fosse rispettosa della fauna e dell’ambiente marino? C’è stato un momento in cui ha sentito la necessità di cambiare modo di fare?
È importante sapere, innanzitutto, che la pesca subacquea influisce sul prelievo ittico del Mediterraneo per una percentuale dello 0,0001%. Tuttavia, ciò non deve deresponsabilizzare assolutamente il pescatore subacqueo. Purtroppo, l’impoverimento ittico del Mare Nostrum è un dato di fatto: non si tratta di una riserva inesauribile da sfruttare incondizionatamente.
I fattori determinanti di tale effetto sono diversi, e tutti imputabili all’uomo. L’inquinamento dei mari e la pesca commerciale sono i più rilevanti. Esistono leggi a tutela e protezione del mare, anche per il pescatore subacqueo; leggi che, a volte, non vengono rispettate dalla pesca commerciale. Flotte di pescherecci nazionali ed esteri intensificano il prelievo a dismisura, in base alla domanda di mercato, spesso utilizzando metodologie di pesca illegali e causando stragi di cetacei e squali, animali importantissimi per l’ecosistema marino. Inoltre, molte specie ittiche considerate “fuori mercato” vengono ributtate in mare ormai senza vita. Per non parlare del massacro di chilometri di fondali con la pesca a strascico e della desertificazione dei suoli marini. Non voglio assolutamente divenire complice di tale sfruttamento eccessivo. Non entrerò mai in pescheria ad acquistare pesce; preferisco immergermi, selezionare le prede e prelevare quanto mi è sufficiente per la mia tavola, senza alcuno spreco.
Il pescatore subacqueo ha la facoltà, il dovere e la coscienza di selezionare le prede, ammirando e lasciando vivere giovani esemplari. Mi piace considerare la mia pesca in apnea come un’esplorazione subacquea, cercando la perfetta armonia tra me e il liquido elemento durante ogni discesa. Se vi è pesce interessante, bene; cercherò con la tecnica di catturare qualche esemplare, senza mai sterminare il branco in una tana, ad esempio, altrimenti quella tana non si ripopolerà per mesi.
Al contrario, se non incontro pesce, non importa, va bene ugualmente: ho allenato il fiato, le gambe e rigenerato la mente. Non sarò mai in cerca spasmodica di pesce o di catture record; non utilizzerò mai quelle apparecchiature di bordo che leggono fondali e pesci come un videogioco. Nulla di tutto ciò sul mio gommone. Svolgo la mia pesca come ho imparato da mio padre: in gommone dietro l’isola, in un buon spot costiero. Grazie all’esperienza, ai racconti e alla conoscenza dell’isola, ancorerò il battello e via a pinneggiare ed esplorare, lasciando anche “al fato” la possibilità di far pesce.
Inoltre, intendiamoci: la quasi totalità dei pescatori subacquei non “muore di fame”, dato che indossa attrezzature subacquee per svariate centinaia di euro, e non è la cattura o l’imbiancata subacquea a cambiare le sorti economiche del protagonista.
Praticare pesca in apnea in modo responsabile comporta una profonda conoscenza dell’ecosistema marino. Quali accorgimenti adotta concretamente per rispettare l’ambiente, e cosa consiglierebbe ad altri pescatori subacquei per essere etici e sostenibili nel loro approccio?
La pesca subacquea, se esercitata in conformità con le regole per la cura e la protezione del mare, è già di per sé una pesca sostenibile e rispettosa. È fondamentale avere una buona conoscenza delle specie ittiche e degli invertebrati, prima ancora di impugnare un fucile subacqueo. Conoscere ogni pesce consente di valutare la cattura in base alla misura (grandezza) della preda, allo stato di crescita e ad altri fattori determinanti nella decisione di cattura o meno.
Il pescatore subacqueo può quindi decidere di praticare una pesca consapevole, rispettosa e sostenibile, grazie a una solida comprensione dell’ecosistema marino e, soprattutto, rispettando le leggi di prelievo imposte. Altrimenti, diverrebbe un bracconiere, la vergogna della categoria! Amare il mare significa cercare di preservarlo e, anche noi pescatori subacquei, nel nostro piccolo, possiamo e dobbiamo muoverci sempre a favore della sua tutela.
Durante le immersioni, quali sono le emozioni che prova nel trovarsi sott’acqua, lontano dal fragore del mondo “superficiale”? Ci sono momenti in cui, immerso nel silenzio, si sente in completa armonia con il mare e i suoi abitanti?
La mia età e la mia esperienza in mare mi inducono inesorabilmente ad avere un minore istinto venatorio e un maggiore sentimento contemplativo durante le mie immersioni in apnea, soprattutto a Pantelleria. Adoro fuggire dalla routine, lasciare a terra i problemi e la frenetica vita dei “terricoli” per trovare rifugio nel mare, godendomi la mia solitudine, ospitato nel Sesto Continente, il mondo sommerso.
È una fuga dalla quale non potrei rinunciare. Nell’immenso blu, nei miei voli subacquei, trovo il mio benessere; ascolto me stesso e, grazie all’esperienza, riesco a percepire la mia frequenza cardiaca. Attraverso l’esercizio mentale, posso regolare il mio organismo nella ricerca della simbiosi perfetta tra me e il grande blu. Ammetto che non sempre ci riesco; non è semplice, ma quando raggiungo tale stadio, è una magica armonia.
Mi sento magnificamente, ben accolto dal mare, illudendomi a volte di essere davvero fortunato, quasi dimenticandomi di dover tornare in superficie a respirare mentre ammiro il volo di grossi trigoni curiosi. È fantastico, e non esiste, a mio parere, nulla sulla terraferma che possa regalarmi sensazioni simili. Pantelleria, con le sue acque cristalline e i fondali meravigliosi, rigogliosi di vita e colori, sarà sempre la cornice ideale per le mie avventure subacquee.
Ha notato cambiamenti significativi nell’ecosistema marino attorno all’isola nel corso degli anni, rispetto a quando hai iniziato a praticare l’apnea? Se sì, quali specie sono diminuite o scomparse e cosa pensi possa essere fatto per invertire questo declino?
Certamente, anche il mare di Pantelleria subisce gli effetti di un eccessivo sfruttamento dell’intero Mediterraneo, causato da fattori già elencati e di cui l’uomo è responsabile. Madre Natura si rinnova, cerca soluzioni, è sempre predominante, ma spesso a discapito di noi stessi. È incontestabile che, in passato, il mare di Pantelleria fosse più ricco di pesce, come molte altre coste e isole italiane.
Credo si debba trovare una soluzione a livello nazionale: nuove leggi, periodi di fermo pesca e, molto importante, un aumento dei controlli contro ogni tipo di bracconaggio in mare. Nello specifico, posso comunque affermare che Pantelleria non vive affatto una situazione grave come altre località e coste marine.
Nella mia regione, il Lazio, dove mi immergo spesso, esistono tratti marini ormai desertificati. Pantelleria paga lo scotto della pesca commerciale, che con il cianciolo fa stragi di pelagici che un tempo frequentavano l’isola in numero molto maggiore.
I branchi di ricciole di taglia che ricordo bene sarebbero oggi un miracolo; non riescono più a raggiungere Pantelleria. Il pesce stanziale, invece, è presente: durante la stagione estiva si rifugia negli abissi perché disturbato, ma continua a esserci. Resto piacevolmente sorpreso dalla ripresa di un pesce che fino a pochi anni fa sembrava estinguersi sull’isola: la cernia. La osservo in ogni mia immersione, con giovani esemplari che spero possano crescere e moltiplicarsi.
Anche il pesce bianco è presente nelle acque isolane, con saraghi, corvine e occhiate. Ormai, da almeno 30 anni, i pesci pappagallo pascolano nelle acque isolane; sono inquilini stanziali che rubano territorio al sarago. Inoltre, il pesce balestra si è adattato alle temperature del basso Mediterraneo, e stanno iniziando a comparire anche i primi esemplari di pesce scorpione del genere Pterois, uno scorfenide predatore infallibile che sta colonizzando la fascia meridionale del Mediterraneo. “Madre Natura Rinnova”.
La pesca in apnea è una disciplina che richiede non solo abilità fisiche, ma anche una profonda connessione con il mare e una consapevolezza etica. Quali consigli darebbe ai giovani che vogliono avvicinarsi a questa pratica, non solo da un punto di vista tecnico, ma soprattutto dal punto di vista del rispetto per il mare e la fauna marina?
Senza ombra di dubbio, è importante e direi essenziale approcciarsi a questa disciplina con un buon corso di apnea e pesca subacquea. Ai giorni nostri, c’è la possibilità di svolgerli in tantissime parti d’Italia. Si imparano importanti nozioni di base, sia fisiologiche che tecniche, e si svolge molta pratica in piscina e in mare. I corsi di apnea rappresentano la migliore pedana di lancio, dove maestri ed esperti (molto più di me) insegnano il mare anche dal punto di vista etico e rispettoso.
Inoltre, è consigliabile andare per mare con un fidato compagno di pesca, magari più esperto, e imparare ascoltando i suoi insegnamenti e le sue esperienze. Anche Internet può essere di aiuto, ma sempre con le dovute cautele. Non bisogna avere fretta di migliorarsi, né bruciare le tappe, ma rispettare se stessi per primi. Col tempo, i risultati e le soddisfazioni arriveranno; le apnee saranno buone, ma è fondamentale mantenere la massima attenzione. Il mare va affrontato con timoroso rispetto.
Guardando al futuro, quale eredità spera di lasciare alle future generazioni riguardo il mare e l’isola che tanto ama? Cosa desidera che comprendano del legame profondo tra l’uomo e la natura?
La mia speranza è che una maggiore consapevolezza possa coinvolgere l’intera comunità isolana, così come i turisti residenti (come il sottoscritto), coloro che possiedono una casa e conoscono e frequentano l’isola da anni, tutti coloro che amano Pantelleria. Noi tutti dovremmo essere più solidali e consapevoli di avere tra le mani un grande tesoro da curare, proteggere e conservare, da consegnare in salute alle future generazioni. Pantelleria merita maggiore considerazione da parte di ciascuno di noi, e credo si debba essere meno egoisti e più solidali e propositivi. Pantelleria è una grande madre che chiede aiuto, una natura da preservare e non sfruttare. Voglio essere ottimista e pensare che Pantelleria possa migliorare e risplendere come una vera perla.
Se dovesse descrivere in una parola ciò che il mare e l’isola significano per lei, quale sarebbe e perché? E se potesse lasciare un messaggio in bottiglia ai futuri abitanti di questo luogo, quale sarebbe?
Due parole: MAGIA PURA! L’immersione in apnea è il conseguimento del più antico sogno dell’uomo, il sogno del volo! Soltanto sott’acqua il corpo umano è in condizione di muoversi liberamente, di volare verso il basso o verso l’alto, grazie ai propri muscoli e con protesi alari quali sono le pinne. Se si unisce alla suggestione del volo la potente immagine del selvaggio mondo sommerso di Pantelleria e il desiderio di libertà e avventura, ecco che arriviamo a percepire il senso profondo della mia passione: magia pura.
Un messaggio ai futuri abitanti isolani?
Voi adesso avete il futuro di quest’isola nelle vostre mani. È un futuro prezioso: non lo distruggete, proteggetelo, abbracciatelo. È una cosa di cui un giorno andrete fieri, molto fieri.
Nata e cresciuta a Milazzo, dove vive tuttora con la propria famiglia d’origine, Giusy Andaloro è laureata in Lettere e Filosofia. Abilitata per l’insegnamento in vari ordini di scuola (Infanzia, Primaria, Secondaria di I e II grado) è insegnante di Lettere a tempo indeterminato presso la Scuola Secondaria di I grado “Zirilli” di Milazzo.
Trasferita in provincia di Milano nel ’99 per esigenze di lavoro, dopo un lunghissimo precariato meneghino, nel 2013 riesce ad ottenere il trasferimento a Pantelleria, estrema isola di confine, situata nel cuore del Mediterraneo a metà tra l’Italia e l’Africa.
La passione per la scrittura creativa l’ha rapita fin da quando era bambina e da sempre, oltre a scrivere per se stessa, cerca di trasmettere ai suoi alunni l’amore per la poesia e per la scrittura tout court.
L’arte poetica è una forma di comunicazione peculiare attraverso la quale è possibile rivelare agli altri istanti di vita vissuta e i turbamenti emotivi provati: l’intelletto decodifica emozioni, ordina percezioni e intuizioni, intesse relazioni, costruisce schemi e modelli e sa spingersi anche al di fuori di essi.
Attraverso il linguaggio della poesia s’impara pian piano ad avvertire e ad esplorare i meandri della propria anima e ciò risulta indispensabile per acquisire sicurezza, fiducia nelle proprie capacità e per costruire in modo solido la propria identità.
Cimentarsi a scrivere un componimento in versi non è altro che saper sfogliare tra le pagine della nostra mente, saper ascoltare e prestare attenzione alla flebile voce del nostro io interiore, riuscire a percepire le nostre emozioni e suggestioni, saper sognare sospesi tra cielo e terra, riuscire insomma ad essere “immensi” pur amando la semplicità che quotidianamente si cela nelle piccole cose.